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L’amore di mia nonna

L’amore di una nonna è fatto di piccole cose.

L’uovo sbattuto di mattina a colazione.

La favola di cappuccetto rosso alla sera nel lettone durante la settimana in cui i tuoi genitori sono in viaggio.

La pomata da mettere nelle narici quando, dice, hai il naso secco.

La transpulmina sul petto.

Chiederti di cantare ancora una volta “nonna ninnonina”.

Accettare che per un vezzo da dodicenne tu decida che la chiamerai per sempre “noni”.

Lavare di nascosto il Bobo mettendone a rischio definitivamente la tenuta. Non chiedere perché a 17 anni uno senta il bisogno di dormire con un peluche.

I cappelletti fatti sul grande tavolo a ferragosto. Non arrabbiarsi se le nipoti nel trasportarli li trasformano in un unico blob.

Insistere nel recuperare la polenta avanzata in tutti i modi possibili. Soprattutto al “gratèin”.

Invitarti a pranzo almeno tre volte la settimana.

Dirti sempre che sembri un po’ “patita” anche quando sei in evidente sovrappeso.

Entrare in casa arrampicandosi da una finestra per vedere come mai a vent’anni stai ancora dormendo di domenica mattina alle undici. Beccarsi così l’appellativo di “nonna-ragno”.

Pregare sant’Antonio da Padova perchè il tuo gatto torni a casa.

Preoccuparsi scoprendo che la luce della finestra del tuo bagno è accesa alle 4 di mattina. E non pensare male ma telefonare per sapere se va tutto bene.

Condividere il tuo dolore raccontandoti di quando anche lei ha visto morire la sua mamma giovane, tacendo il suo strazio di madre che ha perso una figlia.

Cercare di capire oltre il proprio credo e vedere la spiritualità oltre la propria superstizione.

Dirti con la semplicità di un bambino che la nascita di tua figlia ha “ricomposto” la famiglia.

Per tutto questo, per tanto altro, per tutto l’amore, grazie noni.

Tra ns

Da un po’ di tempo non vedo entrare e uscire nessuno. Forse perchè fa freddo e il cortile non si vive come d’estate, quando tutti sanno tutto di tutti.

Non ricordo nemmeno più da quanti anni vivono qui, ma saranno almeno otto o nove perchè forse ero incinta del mio primo figlio.

In un appartamento di venti metri quadrati in cinque, sei, a volte più persone. Tutte transessuali. Tutte sudamericane, per lo più brasiliane.

La prima fu Valeria. La sua posta arrivava a nome di un certo Elio. Era lei. Bellissima, una super donna. Io e la mia vicina la guardavamo dal ballatoio e ci chiedevamo come facesse a essere tanto bella, mentre usciva con le sue amiche e aspettava il taxi che l’avrebbe portata a lavorare.

Era lei la regina incondizionata. Ed era allegra e davvero simpatica.

Il cortile spesso sembrava un certo estetico, mentre qualcuna si spinzettava le sopracciglia altre si pettinavano, così, sedute sulle sedie davanti a casa. Erano scene divertenti, alcune piuttosto surreali, anche perchè alla luce del giorno, fatta salva Valeria, senza il trucco e i vestiti super sexy i corpi in trasformazione e non necessariamente aggraziati prendevano il sopravvento sull’immaginario notturno (vedasi colei che benevolmente avevamo soprannominato “Mike Tyson”).

Una domenica sera siamo tornati da un week-end fuori Milano, stanchi, con i bimbi addormentati, e appena varcata la soglia della corte ci siamo ritrovati in mezzo ad una mega festa con musica e cibo e palloncini e risate e balli. Magnifico. Il compleanno di Valeria.

Questo per dire che c’è stato un tempo in cui la convivenza poteva anche essere un po’ “rumorosa”, ma comunque alla luce del sole.

Poi, un giorno, Valeria è crollata. Era un pomeriggio in cui l’ho sentita urlare in cortile. Diceva che non poteva entrare in casa, che c’era in casa un uomo con un coltello, che la voleva uccidere. Giurava che fosse nascosto dentro dentro l’armadio.

Abbiamo chiamato i carabinieri, ma in casa non c’era nessuno. Dopo questo episodio Valeria è sparita e il clima è cambiato. Le ragazze che sono restate hanno iniziato e cercare di non farsi notare e dare meno “fastidio” possibile.

Non posso dire di averle conosciute bene, qualche scambio di battute (soprattutto sulle mie varie “pance”), ma la loro presenza mi ha reso in qualche modo partecipe di un mondo che non conoscevo. E mi ha obbligato a farci i conti REALMENTE.

Ho visto chi sono i loro clienti. Spesso mi sono ritrovata a commentare “incredibile, chi l’avrebbe mai detto?!?”. Perchè sono tanti i giovani, carini, anche tipi che potresti immaginare facilmente con la fidanzata. Distinti signori. Eleganti. Bravi padri di famiglia. Quelli che non ti immagineresti. O forse sì.

Dopo la scomparsa di Valeria un’unica altra regina l’ha sostituita, Samantha. Anche lei davvero bella, di una bellezza che difficilmente si conosce. Di quelle che mettono un po’ soggezione.  Aveva un’amica bassetta e simpatica che si chiamava Paola. Con Paola ho scambiato più di qualche battuta sul loro Paese e sull’Italia e su cose più piccole, iniziavo, con naturalezza e senza forzature, e conoscere meglio la realtà che le interessava.

Poi ci sono state le vacanze estive, l’anno scorso.

Ero al mare quando ho letto questo articolo sul giornale.

Oggi c’è di nuovo tranquillità in cortile.

La storia di Jasmina

Mi scrive Rossella Kholer “ecco un’altra storia, sempre dal nostro libro Sopra il tavolo di cucina-donne che intrecciano storie.
Jasmina è la mamma di un compagno di scuola materna di mio figlio Francesco, ora quindicenne.”

Mi chiamo Jasmina. Sono bosniaca.
Vivevo a Kozarac, una cittadina della municipalità di Prijedor; questa città si trova nella parte serba della Federazione di Bosnia Erzegovina.  Proprio per questo è stata teatro di una delle più terribili vicende di pulizia etnica di tutti i Balcani.

Dopo cinque anni di tentativi, nel 1991 ho avuto il mio primo bambino. Mio marito l’ha voluto chiamare Jasmin, come il mio fratello gemello: loro due, infatti, non erano solo cognati, ma anche grandi amici. Alla luce di tutto quanto è successo in seguito, mi chiedo se questa sua volontà non fosse un segno del cielo…
Jasmin (ma noi lo chiamiamo abitualmente Jasko) nacque in ospedale a Prijedor, quando c’era la guerra in Croazia. La situazione era già molto tesa e i serbi cominciavano a non vedere di buon occhio noi bosniaci. Credo che sia per questo che al momento del parto i medici non mi fecero l’abituale profilassi perché avevo RH negativo.
Comunque tutto andò bene e questa volta, dopo soli 3 mesi, rimasi incinta di un altro bambino.

Quando Jasko aveva 8 mesi scoppiò la guerra civile in Bosnia e iniziarono dei terribili bombardamenti. Riscordo benissimo il momento in cui cominciarono. Avevamo appena cenato e saltò la luce. Subito iniziò a suonare la sirena  e cominciarono  cadere le bombe. Mi hanno detto che su Kozarac sono cadute in quel periodo circa 25 000 granate (per parlare solo di queste), delle armi esplosive micidiali che, una volta a terra, facevano partire tutt’intorno decine e decine di lame le quali, velocissime,  tagliavano tutto quello che incontravano. La nostra famiglia scappò in cantina, ma molti fuggirono nei boschi: tutti questi furono uccisi.
Noi non tornammo più nelle nostre case.
Avevo portato con me soltanto una coperta per il bambino, ma nient’altro: non potevo immaginare che non avrei più potuto mettere piede in casa e prendere le mie cose…

Restammo due giorni in cantina. Quindi ci ordinarono con i megafoni di uscire: tutti quelli che non uscivano sarebbero stati uccisi. Così è stato. Anche mio padre, che non poteva credere  a quello che stava succedendo, è stato ucciso sulla porta di casa.
Cominciammo a correre, a scappare, non ci si poteva fermare, nemmeno si poteva aiutare chi cadeva.
Vennero divisi gli uomini dalle donne e i bambini. Mio fratello Jasmin fu mandato nel campo di concentramento di Omarska, il più terribile, un vero campo di sterminio.
Lo hanno identificato nel 2007, quando, attraverso le analisi del DNA, hanno ricostruito le ossa dei morti nelle fosse comuni.
Anche mio marito, che aveva 28 anni, è stato ucciso in campo di concentramento: anche per lui la certezza l’ho avuta solo di recente e sono stata dichiarata ufficialmente vedova.
Un altro mio fratello, Iliaz, è stato invece fortunato perché aveva un trattore e i serbi lo risparmiarono, facendogli fare da autista.

Io invece fui mandata nel campo di Trnopolje, non lontano da Kozarac: era un campo di concentramento soprattutto per donne, bambini e anziani. Ci fecero camminare per 12 chilometri, senza mangiare, né bere. Arrivammo in quella che era un tempo una scuola media.
Ci rimasi dal 24 maggio al 16 giugno del ’92. Questo campo era forse meno terribile degli altri campi, anche se ci davano pochissimo cibo. Vidi comunque cose che non posso dimenticare: torture, assassinii, violenze sessuali a bambine…
Il 16 giugno ci fecero salire su un treno con altre donne e bambini. Era un carro bestiame, con solo una finestrella in alto, in un vagone ci stavano circa cento persone, non c’era posto neanche per sedersi. Il treno viaggiava, viaggiava, senza fermarsi mai, neanche per farci fare pipì. E io ero incinta di sei mesi…
Dopo 12 ore vennero aperte le porte scorrevoli e ci fecero scendere in un campo per fare i nostri bisogni. Mentre li facevamo i soldati ci prendevano in giro.
Di nuovo salimmo in treno ed arrivammo a Doboi, al confine con la Croazia. Ci fecero scendere e ci dissero di andare, correre, altrimenti ci avrebbero sparato.
Abbiamo camminato e camminato, attraverso boschi, lungo fiumi, sempre con la paura che ci seguissero e ci uccidessero…

A Doboj ci ospitarono: la popolazione era musulmana e ci aiutò volentieri. Ci rifocillarono, ci fecero fare la doccia e ci diedero dei vestiti. Anche loro erano in situazioni drammatiche, ma si comportarono molto gentilmente e con solidarietà. Dopo qualche tempo fummo trasferiti con camion, trattori e pullman al confine tra Bosnia e Croazia, dove c’è una città divisa in due dal fiume Sava e dal confine tra i due Stati: la città bosbniaca si chiama Bosanski Brod e quella croata Slavonski Brod.
All’inizio non ci lasciavano entrare in Croazia e noi pensammo anche di attraversare il fiume nuotando.
Per fortuna, a un certo punto ci fecero entrare. Jasko stava male e lo portai in ospedale, dove lo curarono mettendogli le flebo. Il giorno successivo Jasko stava meglio. Con un pullman ci portarono nel  campo profughi di Gasinci Non era un campo di concentramento, ma era comunque circondato da filo spinato e  per uscire dovevamo chiedere il permesso ai soldati; comunque bisognava fare 17 km a piedi per raggiungere la città.
Vivevamo in grandi tende, dormendo sulle brande. In tutto il campo c’era un solo edificio con docce e due gabinetti, e doveva servire  per mille persone. Per fare la doccia bisognava fare una coda di un’ora. La situazione igienica era davvero problematica ed eravamo pieni di pidocchi.
In questo campo sono stata dal giugno ’92 all’aprile ’94.

Per vestirci ricevevamo gli abiti dalla Caritas: oggi, ogni volta che vado a depositare un sacchetto nel raccoglitore dell’Humana, non posso fare a meno di pensare che i miei vestiti forse raggiungeranno persone con situazioni simili.
Mangiavamo poco e malissimo: pane e scatolette. Sognavamo la frutta. All’esterno del campo c’erano alcuni alberi di prugne e i soldati a volte davano il permesso di andarle a raccogliere, ma soltanto a noi donne incinte. Ogni tanto qualcuno riusciva a procurarsi un po’ di burro e fare con quello e della farina delle focaccette che spandevano intorno un odore buonissimo.
Per lavare prendevamo dalla spazzatura le scatole grandi dei cetrioli e facevamo bollire l’acqua con un po’ di sapone, soprattutto per disinfettare i ciripà.
Tutte le mie energie erano indirizzate a conservare il massimo dell’igiene possibile, perché in quella situazioe promiscua era facilissimo prendersi malattie, infezioni, parassiti. Per esempio, tenevo come una reliquia il vasino di Jasko, che mi ero procurata con grandi sacrifici: infatti così almeno da quel punto di vista ero tranquilla. Un giorno ci sono rimasta malissimo quando ho scoperto che l’aveva usato una signora…
In maggiore difficoltà erano le donne più ricche, perché non sapevano né adattarsi, né arrangiarsi. Una volta una professoressa appena arrivata chiese: “Ma i miei vestiti chi li lava?”, non rendendosi conto dell’assurdità della sua domanda. In seguito, cercava sempre di mettere i suoi abiti da lavare in mezzo ai nostri, quando sapeva che  avremmo fatto il bucato.

Avvicinandosi la data del parto, ho dovuto andare per tempo dai soldati per farmi accompagnare perché l’ospedale era lontano.
Il 2 ottobre è nato Mirza. Io ero terrorizzata perché ero anemica e non avevo fatto alcun controllo: non sapevo se il bambino aveva potuto crescere sano nella mia pancia.  Poi c’era sempre la questione del sangue AB negativo, ma per fortuna tutto è andato bene: il bambino ha ereditato il mio gruppo sanguigno, quindi compatibile con me.
Nato il bambino, sono stata tranquilla per tre giorni. Ma poi, nella baracca, gli altri abitanti hanno cominciato a sollecitarmi: “Oggi è il tuo turno per fare la legna!” Infatti, a turno dovevamo andare a prendere la legna dai camion, lottando per ottenerla,  spaccarla e poi segarla a mano. E il fatto che avessi avuto da poco un bambino non mi esentava dal lavoro. Quando si è in situazioni drammatiche, non c’è molta solidarietà, ognuno pensa a sé e alla propria famiglia: anche per il cibo, oppure per pulire la baracca.
Molti poi mi dicevano: “Guarda questa, c’è la guerra e si mette a fare un figlio!” Ma io ero rimasta incinta prima che scoppiasse! Certo non lo avrei deciso, se avessi saputo in che situazione mi sarei trovata.

Anche se la nascita del mio secondo bambino  è avvenuta in condizioni estreme, vorrei raccontare qualcosa  sulle nostre tradizioni relative al matrimonio e al parto, che sono molto belle e che ricordo sempre.
La madre di ogni ragazza comincia prepararle il corredo molto presto, cucendolo o acquistandolo.
Il matrimonio avviene in Municipio. La festa continua a casa, dove si mangia e si balla, con la musica dal vivo. Tutti sono invitati alla festa di matrimonio. Semplicemente, si sa che in quella casa si festeggia: chi vuole va e partecipa. Le porte della casa sono aperte per tre giorni e tre notti. Ai parenti e agli amici più vicini è la sposa a fare un piccolo regalo che viene ricambiato in denaro od oggetti per la casa.
Dopo il parto, la puerpera non esce di casa per quaranta giorni. Si riposa, non ha rapporti sessuali, nemmeno cucina, perché è accudita dai parenti e tutti portano qualcosa da mangiare. La casa è sempre aperta e chi vuole va a visitare la mamma e il suo bambino.
Questo è bello, perché ti fa sentire amata e coccolata, ma è anche stancante perché c’è sempre qualcuno che entra ed esce e, anche se sei stremata e hai sonno, devi sempre dar retta a chi viene a farti visita.
La caratteristica delle case sempre aperte è proprio tipica delle nostre parti. Questo avviene naturalmente in occasioni speciali, come un matrimonio, una nascita o un lutto, ma avviene anche tutti i giorni, tra vicini. Io, per esempio, a colazione oppure al pomeriggio, dopo aver fatto le faccende di casa, mi trovavo con le amiche, a chiacchierare, bere caffè, e ancora chiacchierare.

Mentre ero nel campo fui adottata. Nel senso che, attraverso un circolo ARCI di Firenze, ci fu un progetto per adottare a distanza famiglie intere residenti nel campo profughi. Così, la direttrice del museo etrusco di Firenze, una donna meravigliosa, cominciò a comunicare con noi e ad inviarci del denaro. Questo bellissimo rapporto si è mantenuto nel tempo, la signora ha continuato a sostenerci anche quando siamo arrivati in Italia; ci siamo conosciute e ancora oggi siamo in contatto.
Comunque, in tutto quel periodo il mio continuo tentativo era di riuscire ad andarmene dal campo. Speravo di andare in Austria dove si era già rifugiato mio fratello, ma in Bosnia le donne perdono il proprio cognome da nubile e acquisiscono soltanto e definitivamente quello del marito. Io perciò non risultavo parente di mio fratello, perché avevo un altro cognome e non è stato possibile il ricongiungimento.

Quando c’è stata la possibilità di andare in Italia ho detto “va bene, qualsiasi cosa sarà megli che qui.”
E così sono partita. Avrei dovuto sistemarmi in una famiglia della zona di Torino, ma le famiglie Stasi e Savio, di Invorio, che vivevano in un’unica grande casa, si erano dichiarate disponibili e sono capitata da loro.
Quando sono venuti a prendermi si aspettavano una donna con due bambine, perché i nomi, Mirza e Jasmin, li avevano ingannati. Poi, sapendo che sono musulmana, non credevano certo di vedere una donna bionda con due bambini dai capelli chiarissimi, quasi bianchi.
Io allora non comprendevo una parola di italiano, ma ho capito subito che mi trovavo in una bella situazione, dove i miei bambini avrebbero trovato l’affetto di zii, cugini e anche nonni. Mirza e Jasko hanno cominciato ad andare all’asilo e io nel primo periodo ho studiato come una pazza l’italiano, aiutata da tutti: per esempio, su ogni oggetto della casa avevano appiccicato bigliettini con il nome in italiano e in bosniaco.
Ora io lavoro e viviamo in una nostra casa. I ragazzi sono grandi. Jasko frequenta l’Itis e Mirza la scuola professionale per elettricisti: avrebbe voluto fare il liceo artistico, ma io preferisco che abbia un lavoro sicuro in mano.
Non parlano bosniaco e si sentono italiani. Sanno che siamo musulmani, ma non li ho educati nella nostra fede. Credo infatti che l’importante sia essere onesti e solidali, rispettare gli altri e vivere in pace: questo ho cercato di insegnare loro.
Certo, ogni tanto io racconto di quello che è successo, perché voglio che sappiano e che non si dimentichino, però loro sono cresciuti qui e vivono come tutti i loro coetanei, vogliono le stesse cose, hanno le stesse ambizioni.  Ogni anno torno in Bosnia da mia suocera, ma ogni volta per loro è più difficile, là si sentono estranei.
Anche se hanno caratteri diversissimi, forse tutti e due si sentono un po’ defraudati dalla vita, da quello che avrebbero potuto avere vivendo in una famiglia normale, con un padre che lavora e condizioni di vita tranquille.
Ma tutto questo è successo, e non si può tornare indietro.

La storia di Rosa

Rossella mi ha inviato questa storia incredibile, struggente, di violenza e d’amore, tratta dal libro SOPRA IL TAVOLO DELLA CUCINA, DONNE CHE INTRECCIANO STORIE, realizzato dall’associazione Terra di Confine di lesa (Novara), partendo dal tema della maternità. La ringrazio di cuore.

Sono Rosa, salvadoreña.
Negli anni Settanta ero una guerrigliera del Fronte per la Liberazione Nazionale Farabundo Martì, nome dell’eroico rivoluzionario che aveva lottato per l’indipendenza durante il XIX secolo.
Ho detto che ero una guerrigliera, ma forse il termine è improprio:  il mio compito era quello di soccorrere i feriti, di identificare e fotografare le vittime dei massacri, di individuare le famiglie dei combattenti che erano stati uccisi.
Quindi posso dire che, sì, ero una guerrigliera perché appartenevo al movimento, però io non ho mai ucciso nessuno.

Sono nata nello Stato del Salvador, piccola nazione del Centroamerica, nella provincia di Usulutàn, da una famiglia modesta ma veramente fantastica, anche se mio padre ci abbandonò quando io avevo cinque anni.
Eravamo in cinque fratelli e mia madre, ostetrica, capì ben presto che per me non ci sarebbe stato un bel futuro e soprattutto non avrei proprio potuto studiare. Perciò, a malincuore, decise di separarmi dai miei fratelli per affidarmi a una famiglia molto ricca, gli Avilas.
All’inizio ebbi un forte moto di ribellione, un rifiuto feroce. Solo dopo molti anni capii che mia madre, soffrendo terribilmente, mi staccò da sè per amore.
Gli Avilas erano una bella famiglia di medici e avvocati, avevano altri figli e mandarono anche me nel miglior collegio del Salvador.
Crescendo, mi accorgevo sempre più della grande ingiustizia che viveva il mio Paese:  erano infatti gli anni della dittatura che mise in atto una feroce repressione contro i contadini, contro i coloni come mio padre. I militari erano comandati dal generale Carlos Humberto Romero che, attraverso la cosiddetta riforma agraria, confiscò tutte le proprietà, lasciando nella totale indigenza migliaia di famiglie come la mia.

Sentivo forte la rabbia per queste ingiustizie e a 13 anni decisi di scappare dal collegio perché non sopportavo il contrasto tra la mia vita tranquilla e opulenta e la miseria e la disperazione che avevo intorno.
In questo mi aiutò Josè: l’uomo che sarebbe poi diventato mio marito incarnava la lotta contro il potere. Era deciso e leale, pronto a dare la vita per il suo ideale che divenne quindi anche il mio. Spesso ci incontravamo di nascosto, in modo rocambolesco  sotto le mura del collegio. La sua famiglia di ricchi farmacisti lo aveva destinato al seminario, ma lui se n’era andato e frequentava l’università.
Ci fidanzammo, poi ci sposammo di nascosto in un rifugio e ci stabilimmo a casa di uno zio.
Con lui iniziai a praticare la lotta sindacale attraverso la protesta e la denuncia, ma sempre più spesso ci trovavamo a contare i corpi dei nostri amici straziati dalle torture, a volte anche decapitati per confondere le loro identità. Ai preti gesuiti, molto colti, che difendevano la popolazione, veniva aperto il cranio e strappato il cervello.
Il dialogo, quindi, non funzionava: decidemmo perciò di intraprendere la lotta armata, ci autotassammo e acquistammo parecchie armi.

A 15 anni ebbi la mia prima figlia, Ana. Era il 1974. Partorii in ospedale, non avevo con me nessuno della famiglia e nessuno venne a trovarmi.
Da noi è consuetudine che la famiglia stia molto vicino alla neomamma, soprattutto se giovane come ero io. Di solito, per quaranta giorni la puerpera è completamente servita dalla madre o dalle zie, che le fanno fare la “dieta”, cucinandole del cibo particolare che favorisce l’allattamento. Per esempio, le danno da mangiare molto formaggio, cacao, verdure e minestre; inoltre non le permettono di lavorare, né di compiere sforzi, creando un clima di serenità favorevole al suo spirito.
Mio marito vide la bambina dopo tre mesi. Era emozionato e avrebbe voluto restare con noi perché aveva tanta voglia di vivere in famiglia. Mi disse: ”Ana ha gli occhi del Tigre”. Tigre era infatti il suo nome di battaglia, a causa del colore dell’iride e del suo sguardo felino.
Nonostante i problemi, continuavamo a studiare entrambi: io frequentavo la scuola per infermieri e lui era iscritto a giurisprudenza. Per guadagnare qualcosa Josè insegnava e io accudivo persone anziane.
Continuavamo a partecipare ad attentati e rappresaglie ed eravamo ricercati per questo motivo; iniziarono allora gli anni più difficili di tutta la mia vita.
Dopo la nascita di Ana, mio marito rientrò a casa poche volte e per visite brevissime. Era una situazione angosciante: raramente avevo sue notizie durante i mesi di lontananza, vivevamo alla macchia, non vedevo mia madre alla quale avevo affidato la mia bambina, né i miei fratelli. Ero sola e dovevo spostarmi continuamente, di notte; spesso rimanevo paralizzata dalla paura, per esempio quando sentivo i passi degli uomini degli squadroni della morte accerchiare la casa, oppure i carri armati sempre più vicini, pronti ad abbattere le abitazioni.
Durante la militanza sono nati Paco e Luz, che significa luce. Per partorire Paco andai a piedi in ospedale, percorrendo 5 chilometri con le doglie. Fu un parto rabbioso, non volevo più soffrire e poi desideravo avere lì mio marito o almeno qualcuno della  mia famiglia; invece ero ancora più sola che mai.
Dopo un anno partorii Luz da sola, in casa, con lo stato d’assedio, senza luce. Avevo studiato da infermiera e alcune nozioni le avevo imparate da mia mamma ostetrica, ma era tutto terribile, doloroso, ero devastata anche nello spirito. Non so spiegarmi come mai in una situazione di morte si desideri così tanto generare la vita.
Alla nascita, Luz pesava 1800 grammi, il giorno dopo fui costretta a portarla a piedi in ospedale facendo attenzione a non farmi riconoscere. Durante quel ricovero, mi addormentarono e senza dirmi nulla mi chiusero le tube. Seppi poi che lo fecero considerando la mia giovane età e la situazione che stavo vivendo.
Le mie due figlie portano un cognome diverso perché non doveva apparire che erano figlie del Tigre, perché i militari avrebbero capito che era ancora in Salvador e lo avrebbero cercato con più accanimento. Solo Paco ha potuto essere riconosciuto da suo padre, perché subito dopo la sua nascita ci fu una brevissima tregua.
La guerra era ormai esplosa e la guerriglia era in piena attività. Mio marito era davvero in pericolo ed io volli che scappasse. Gli dissi “Vai, salva almeno la tua vita, io mi arrangerò”.
Ci lasciammo con un abbraccio fortissimo e un bacio struggente: ebbi solo il tempo di comunicargli che aspettavo il nostro terzo figlio che lui non avrebbe mai visto. Josè diede uno sguardo breve ai bimbi e poi si girò di scatto, piangendo. E’ l’ultima immagine che ho di mio marito, perchè non ci saremmo mai più ritrovati.

Eravamo ricercati. Io andavo a raccogliere i feriti e li curavo, erano tutti compagni di mio marito. Iniziai a lavorare all’ospedale militare, sempre sotto falsa identità.
Una notte vennero a prendermi, erano gli uomini dello squadrone della morte, volevano sapere dove fosse nascosto Josè. Mi spogliarono completamente, mi bendarono, mi violentarono a turno, mi picchiarono con un bastone fino a farmi sentire suonare le campane nelle orecchie. Mi puntarono il mitra contro le tempie, poi mi violentarono ancora e mi fecero un’iniezione endovenosa.  Mi risvegliai non so quanto tempo dopo sotto un getto d’acqua gelida; avevo il ciclo, ero tutta sanguinante e piena di morsi. Non mi diedero da mangiare né mi permisero di dormire.
Continuarono così per 15 giorni, ma non parlai. Con me c’era una ragazza giovanissima; dopo averle fatto subire la mia sorte, le infilarono un cero nella vagina fino a perforarla, facendola morire dissanguata, lentamente.
Gli uomini torturati giacevano nudi e legati su dei letti cosparsi d’acqua. Le mani, i piedi, le orecchie ed i genitali venivano collegati a elettrodi che producevano scosse tremende, ma non tali da farli morire subito; erano straziati e nessuno uscì vivo. Soltanto io mi salvai perché mi credettero morta.
Durante questi giorni di tortura, chiudevo gli occhi e vedevo il viso dei miei bambini, sempre, continuamente. Fu una visione che non mi abbandonò mai, mi alimentavo della loro vista, superavo il male che mi infliggevano solo pensando a loro. E’ incredibile come l’immagine dei miei figli fosse così codificata nella mia mente.
Forse fu solo quello a salvarmi.

Dopo che mi fui lentamente ripresa dalle violenze, mi arrestarono. La mia famiglia affidataria venne a saperlo e pagò per farmi uscire di prigione. Fu allora che i militari diedero fuoco alla casa dove abitavo, ma mi salvai perché avevo intuito che stava succedendo qualcosa di brutto: le mie orecchie erano ormai allenate a riconoscere il rumore dei passi degli uomini dello squadrone. A mezzanotte feci appena in tempo ad uscire di nascosto, attraversai il filo spinato e dall’esterno vidi esplodere la casa.
Era il segnale inequivocabile che dovevo sparire anch’io.
Consegnai i bambini a mia madre e iniziai a girare per cercare un aiuto per partire.
Grazie al mio cognome italiano, ereditato da mio nonno ligure emigrato in Salvador, potei raggiungere l’Italia come rifugiata politica. Partii senza alcun
bagaglio, neppure una foto dei miei figli, l’unico vestito era quello che indossavo; pesavo 32 chili.
A Milano mi aiutò un’amica italiana; vissi con lei tre anni, mentre lavoravo per molte ore in una casa privata.
Era il 1981. L’anno prima, il 24 marzo, nella chiesa della Divina Provvidenza, avevano assassinato la migliore persona che conobbi in quegli anni, e cioè monsignor Oscar Romero. Con quell’omicidio ogni speranza era distrutta!
Guadagnavo centomila lire al mese che mandavo sotto falso nome in Salvador per i miei bambini: il mio pensiero struggente era solo per loro. Vivevo male, avevo gli incubi, di notte gridavo, mi svegliavo sudata, agitata, mi calmava solo il pensiero dei miei bambini, come quando mi torturavano.
Non potevo espormi troppo perché in Salvador ero ancora ricercata. Seppi che mio marito, con un gruppo di guerriglieri aiutati da Fidel Castro, aveva raggiunto la Russia, ma che in seguito alla deportazione era morto.

Erano notizie ufficiali provenienti da fonti attendibili. A questo punto, dopo aver dichiarato lo stato di morte del mio coniuge, una persona straordinaria, un funzionario dell’Alitalia che aveva a cuore la mia vicenda, decise di fare per me una cosa eccezionale, senza secondi fini: mi sposò e potei così far venire in Italia i miei bambini.
Tra me e questa persona non ci fu nulla di sentimentale: io non riuscivo più ad amare e neppure a lasciarmi andare, ero lacerata dentro, perciò ci siamo voluti bene come fratelli. Quando lui si fidanzò, divorziammo e quindi potè poi sposarsi. Siamo tuttora grandi amici e tra lui e i miei figli c’è un rapporto straordinario.
Quando i miei bambini arrivarono a Milano ero felice: non li vedevo da tre anni e avevo anche rischiato di perderli perché in Salvador dicevano che ero morta sotto il crollo della casa.
Ma i problemi non erano finiti. Persi l’abitazione che mi aveva procurato il mio amico, perché eravamo in troppi!! Mio figlio Paco era violento, quasi cieco a causa dei traumi, Ana aveva perso l’udito per le bombe e gli spari, solo Luz, la più piccola, aveva patito di meno. Tutti quanti odiavano la lingua spagnola perché ricordava quel periodo di grande sofferenza.
Io stessa soffrivo e soffro tuttora di forti emicranie, sento di avere il cervello danneggiato, ho pochi ricordi, la violenza ha interrotto tutti i ricordi della mia infanzia e le ferite delle torture sono solo assopite e non spente.
Per molto tempo girai con un pistola Beretta 765 in borsa, non la lasciavo mai; adesso vado in giro con la Bibbia in tasca, perché condivido la fede con i Testimoni di Geova che mi hanno aperto le loro case.
Qualche anno fa, in televisione vidi un documentario con interviste sulla lotta armata in Salvador e ad un certo punto riconobbi Josè, il Tigre: impossibile confonderlo. Allora era vivo! Telefonai alla Rai, mi rivolsi ad Amnesty International e venni a sapere che mio marito non era morto, ma, nonostante le mie continue ricerche,                       non ci fu modo di rintracciarlo.

Mi rassegnai ad una vita da vedova: i ragazzi frequentavano le scuole e io lavoravo tantissimo per non far mancare loro il necessario. Dopo il diploma ognuno di loro ha trovato una sistemazione e da qualche anno anche mia madre vive in Italia. Io ho conosciuto un uomo più giovane di me e ora viviamo insieme.
Sono ormai nonna, ma i miei tormenti non sono finiti perché a marzo di quest’anno, nel cuore della notte, sono stata svegliata da una telefonata. Era il Tigre che, dopo anni di ricerche, aveva finalmente ottenuto il mio numero di telefono. Credevo di morire dall’emozione; non riuscivo a parlare, ero paralizzata dallo stupore, mi sembrava di avere un incubo.
Il Tigre mi ha detto che vive in Svezia e che desidera tantissimo vedere me e i nostri figli: appena vorrò lui sarà pronto a raggiungermi.
Ho parlato con i miei figli, ma loro, e soprattutto Paco, non vogliono incontrarlo perché attribuiscono a lui la colpa di quanto hanno subìto in questi anni.  Per me è un enorme dispiacere e non so più come fare per incoraggiarli a questo incontro. Josè non ha neppure mai visto Luz e io ho una tremenda voglia di incontrarlo.
E’ terribile dover negare ad un padre l’incontro con i suoi figli. Ecco che cos’è la guerra, ecco che cosa significa credere a un ideale di uguaglianza e di giustizia.
Che prezzo orrendo devi pagare per cercare di salvare il tuo popolo, per riconquistare ciò che ti apparteneva!
Non so come finirà questa storia, ma posso dire che da quella notte di marzo la mia vita è di nuovo in trasformazione e ogni cosa potrà ancora succedere.
L’unica certezza è quella di essere riuscita a tenere insieme i miei figli che si vogliono bene e si aiutano.
Io, con i pochi ricordi di cui dispongo, addormento il mio adorato nipotino Alessandro cantando una filastrocca che fa così:

La loba, la loba le comprò al lobin
un calzon de seda e un gorro bonito
la loba se va de paseo llevando
en sus brasos su hijito feu

La lupa, la lupa, ha comprato al lupetto
un pantalone di seta rosso
e un berretto bello
la lupa va a spasso
portando in braccio suo figlio brutto.

Taccia l’Italia

Italiani, popolo di vili, che hanno talmente paura della responsabilità da preferire che qualcuno decida per loro anche su questioni come la vita e la morte.

Grazie alla famiglia Englaro, a quel “cavallo di razza” che è stata Eluana, oggi questo Paese può vantare un altro percorso nella legalità, alla luce del sole, oltre l’ipocrisia.

Il mio amore infinito arrivi a un padre e a una madre che ci hanno resi tutti migliori.

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